Condivido con piacere il mio racconto intitolato “L’uomo di Sulapac”, con cui sono stata selezionata nell’ambito del Concorso Letterario Nazionale “Favole e Fiabe 2025”.

Accompagno ad esso il disegno che gli ho dedicato.

 

L’uomo di Sulapac

 

In città, ormai, da qualche giorno non si parlava d’altro. Ogni conversazione era incentrata su di lui: l’uomo di Sulapac. Tutti si interrogavano, incessantemente, su chi fosse e, soprattutto, da dove provenisse. Già, perché nessuno era in grado di collocare geograficamente Sulapac. Inoltre, non si capacitavano del fatto che quell’uomo misterioso non avesse un nome, definendosi egli stesso un ignoto. Era assai diverso dagli altri e le sue fattezze fisiche si differenziavano nettamente da quelle della gente comune. La sua pelle era talmente levigata e perfetta da sembrare ritoccata, i suoi tratti erano così delineati da essere facilmente confondibili con quelli di un disegno fatto a matita, il suo corpo era scultoreo e, al posto degli occhi, pareva avere due turchesi incastonati, tanto erano brillanti e meravigliosi. Tutti coloro che si imbattevano in lui ne rimanevano incuriositi perché era una creatura quasi aliena, appartenente più al genere fumettistico che alla realtà. Possedeva, inoltre, un eloquio raffinato che rapiva e che, accompagnato dallo sguardo di cielo, affascinava chiunque si relazionasse a lui. Impeccabile più di una calcolatrice, non sbagliava mai una virgola e trovava sempre le parole giuste per accattivarsi le simpatie ed i consensi altrui. Se compariva sul ciglio della strada attirava immediatamente a sé folle affamate della sua presenza, così speciale ed unica, a loro dire. Lui era un incantatore nato, sapeva cogliere i desideri di chi aveva di fronte, mostrandosi disponibile ad esaudirli. Il tempo scorreva veloce e già erano trascorse due settimane dal suo arrivo in quella cittadina che lo aveva accolto e amato all’istante: le donne erano tutte pazze di lui e gli uomini lo concepivano come un leader esemplare perché coniugava, oltre al suo rinomato carisma, anche una vasta conoscenza del mondo e sapeva districarsi agevolmente in ogni questione. Si proclamava un paladino della giustizia, faceva promesse rivoluzionarie che miravano a risolvere le condizioni precarie di chi gli confessava i propri disagi e problemi, si ergeva a difensore dei più deboli, oltre a reputarsi un seduttore incallito e dal savoir-faire irresistibile. La gente lo acclamava ovunque, decantandone le gesta, che lui raccontava e diffondeva a piene mani, destando ammirazione incondizionata. Con le sue frasi dense di pathos e sensibilità riparava cuori feriti e ne spezzava, però, altrettanti poiché era un’ardua impresa entrare nel suo universo e conquistare il suo, di cuore. Non esisteva, insomma, a quanto pare, una persona più eccezionale dell’uomo di Sulapac. Passò un’altra settimana e l’intera città era irrimediabilmente catturata da quell’enigmatico forestiero che ormai era diventato, a pieno titolo, uno di loro. Lui aveva giurato di sostenere e appoggiare chiunque ne avesse bisogno, mostrandosi come una presenza inossidabile e sommergendo i nuovi compaesani di aneddoti strabilianti e di avventure coraggiose che avrebbero caratterizzato la sua esistenza, sino a quel momento. Il ventunesimo giorno accadde, però, un qualcosa di totalmente inaspettato: nessuno vide più l’uomo di Sulapac. Lo cercarono in lungo e in largo, ma di lui si persero totalmente le tracce. Pareva impossibile che non ci fossero sue impronte da nessuna parte. I cittadini versavano in uno stato di disperazione assoluta, si divincolavano impauriti e persi, temendo le disgrazie più nere. Eppure, l’avevano incontrato la sera prima. Dove si sarebbe nascosto? E, soprattutto, perché? Questi due quesiti imperversavano nella mente di coloro che si sentivano smarriti senza di lui ed avevano un urgente bisogno di scoprire la verità. Era complicato giungere alla fonte, dato che di lui, oltre ai suoi discorsi, non si sapeva altro, nemmeno le cose basilari come il suo nome e le sue origini. E, loro, superficialmente, si erano accontentati della sua trascinante favella, non interessandosi minimamente al resto. Solo Juliette, fine biochimica che aveva osservato con occhio clinico e con il suo razionale distacco l’intera permanenza dell’uomo scomparso, era riuscita a trovare il bandolo della matassa ed era pronta a svelare a tutti l’arcano: il Sulapac non era né una nazione, né tantomeno il nome di una città esotica, bensì il nome di un materiale avanguardistico biodegradabile, realizzato con scarti del legno ed additivi, una svolta green straordinaria in grado di sostituire la vecchia plastica. L’idea era partita da due argute sorelle finlandesi che l’avevano ideato e brevettato. Juliette, quindi, si recò presso l’umile dimora dell’uomo, sicura di carpire indizi utili a convincere anche i suoi compaesani increduli. Fu così che, rovistando nel giardino antistante, notò un messaggio scritto da lui, che lesse accoratamente a tutti: “Cari amici, voglio ringraziarvi per tutto ciò che mi avete dato. Mi avete subito apprezzato, stimato, elogiato ed amato, ma io non sono un uomo, non sono un essere umano come voi, sono soltanto un esperimento da laboratorio. Sono un composto di Sulapac e dopo ventuno giorni, tuffandomi nella rigogliosa terra, mi decompongo. La mia missione è terminata. Voi mi avete idealizzato, avete creduto ad ogni mia parola. Non avete mai nutrito dubbi su ciò che dicevo, anche quando esageravo con gli sproloqui. Vi ho fatto credere di potervi aiutare, di potervi tirare fuori dai vostri guai, di potervi fidare di me. E voi l’avete fatto, senza nemmeno chiedervi il perché glissassi sempre sul mio nome e sulla mia provenienza. Siete stati incredibilmente ingenui. Mi avete messo sul piedistallo e io vi ho preso in giro, riempiendovi di storie inventate per vedere fino a che punto potevate stupirmi con la vostra infantilità e imprudenza. Ma vi ho voluto abbandonare molto prima del previsto: il progetto sarebbe durato ben tre anni. Tre anni in cui sarebbe potuto accadere di tutto dato che già in sole tre settimane ho scombussolato le vostre vite. L’unico modo per decompormi alla velocità della luce era tuffarmi nell’invitante terriccio ed ho avuto l’irrefrenabile impulso di farlo, perché desidero aprirvi gli occhi e farvi comprendere che la cecità peggiore è quella mentale: i vostri occhi hanno divorato ogni mia fattezza esteriore, restandone abbagliati e non curandosi minimamente del contenuto mendace. Non vi dimenticherò perché, in fondo, se son stato in mezzo a voi era per accrescere il vostro intelletto e la vostra attenzione su ciò che in troppi trascurano: i dettagli interiori.”

 

Alessandra Della Quercia

(poetessa, scrittrice, web journalist, pittrice)

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